“Occorre far capire alle persone il rispetto verso la montagna”.
“Bisogna immedesimarsi nel suo aspro ambiente naturale”.
Quante volte non si sono sentiti questi slogan?
Questa specie di etica della montagna sembra oggi la cifra che i teorici delle alture propongono imprescindibilmente a coloro che entrano in contatto con il mondo verticale. Al turista, occasionale o non, spetterebbe bene ascoltare e riflettere sul corretto comportamento da tenere in questi luoghi così difficili e così fragili, e tanto diversi dall’ambiente urbano della pianura. E ricordarsi, all’occorrenza, che l’idea di un approccio umano alla montagna, dove tanta importanza è data al corretto rapporto con la natura, non è retorica dell’ultim’ora.
Già negli anni Settanta era nata in Valle Orco, nel contesto del Parco Naturale del Gran Paradiso, il fenomeno del “Nuovo Mattino” sotto l’egida di Gian Piero Motti. Così i paesaggi alpestri piemontesi o la Val di Mello, in provincia di Sondrio, non furono più attraversati solo da ruvidi e taciturni montanari, ma anche da giovani hippies magri e seminudi con la testa infarcita di filosofie orientali e degli scritti più noti dei teorici della beat generation, da “Sulla strada” di Kerouac a “Juboxe all’idrogeno” di Ginsberg. L’interessante di queste esperienze era che l’idea della rivoluzione venne convogliata nel rapporto alpinistico del sotto col sopra, del micro e del macro cosmo, dando vita a vie sulla roccia, che nella Val di Mello presero nomi mistici come “Scoglio delle metamorfosi”, “Kundalini”, “Oceano irrazionale”.
Si trattava di un’arrampicata nuova, nata da una nuova filosofia di vita. Come ci ricorda Marco Albino Ferrari in Alpi Segrete queste ascese non erano spettacolari per l’altezza, ma presupponevano un equilibrio ed una tensione del corpo in cui solo una mente calma e concentrata poteva determinare il giusto movimento. Tale concentrazione prescindeva dalla mera forza muscolare ed era necessaria perché quei ragazzi arrampicavano senza chiodi di protezione per portare sù un’ascesa eticamente pulita. Se la parete diventava impossibile non piantavano chiodi, semplicemente si tornava giù.
Questa cultura misticheggiante ed esoterica, sbrindellata, giovane e pseudo sciamanica seppe reinventare il modo di vivere la montagna. Lo fece partendo non dai materiali o dal richiamo di mete altisonanti (queste semmai vengono dopo), ma da un corretto atteggiamento mentale volto alla fusione dell’uomo con la natura, dove l’arrampicata, o il trekking domenicale di chi vive in città, non sono scopi, ma mezzi per “star dentro” la natura.
Così il messaggio che ci lasciarono i giovani del “Nuovo Mattino” e tutti gli “hippies montanari” di quegli anni fu semplice ed audace come la loro vita. Per loro poteva essere più gratificante arrampicare su di un masso di sei metri (o non arrampicare affatto) piuttosto che su una parete di seicento; e per noi? Una camminata rinunciando all’auto, e magari all’assillo dello smartphone e dei social, può valere una cima?